La crisi impone alla disciplina economica una riflessione.
In primo luogo,
sugli errori intellettuali che hanno impedito agli economisti di
individuarne per tempo le cause. Ma agli economisti si chiede anche di
indicare i rischi delle politiche anticrisi di molti paesi. Come i riflessi
che potrebbero avere su riallocazione e innovazione e dunque sulla crescita
di lungo periodo. I piani di sostegno alle economie sono probabilmente il
modo migliore per combattere il pericolo dell'affermarsi di reazioni
populiste e anti-mercato. A patto però che siano ben congegnati.
La crisi globale rappresenta un'opportunità di riflessione critica per la
disciplina economica, un'opportunità per allontanarci da convinzioni che non
avremmo dovuto abbracciare così ingenuamente. Idee come il supporto
indiscriminato alla deregolamentazione del mercato o il rigetto della
volatilità aggregata ora si rivelano frivoli capricci, mentre le astrazioni
dai fondamenti istituzionali del mercato ci appaiono ingenue. Questi limiti
richiedono riflessione e auto-analisi e, si spera, nuove ricerche da parte
dei giovani economisti. La crisi è anche un'opportunità per individuare le
lezioni più importanti che restano immutate dopo i recenti eventi e per
chiederci se queste lezioni possono guidarci nell'attuale dibattito di
policy.
Su Cepr Policy Insight n. 28 ho esposto il mio pensiero su quali siano stati
gli errori intellettuali commessi e quali lezioni se ne possano trarre in
termini di nuovo lavoro teorico che si rende necessario. E suggerisco anche
che nel dibattito sulle politiche per contrastare la crisi sono state
sottovalutate lezioni importanti della teoria economica e della crescita.
COMPIACENZA INTELLETTUALE
Molte cause della crisi sono oggi evidenti, ma la maggior parte di noi non
le ha riconosciute in anticipo. Tre idee accettate con troppa rapidità ci
hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.
- Politiche "intelligenti" e nuove tecnologie hanno messo fine all'era
della volatilità aggregata.
Benché i dati mostrino un marcato declino della volatilità aggregata dagli
anni Cinquanta in avanti, è ora chiaro che la fine del ciclo economico era
un'illusione. Anzi le politiche e le tecnologie che hanno reso l'economia
più forte contro i piccoli shock, l'hanno anche resa più vulnerabile agli
eventi con bassa probabilità. La diversificazione dei rischi idiosincratici
ha creato una molteplicità di relazioni fra controparti. Questa nuova, densa
trama di interconnessioni ha creato potenziali effetti domino tra
istituzioni finanziarie, imprese e famiglie.
I crolli nel valore delle attività e le contemporanee insolvenze di molte
imprese mettono in luce che la volatilità aggregata è parte integrante del
sistema di mercato. Èanche parte integrante del processo di distruzione
creativa. La comprensione che la volatilità non ci abbandonerà, dovrebbe
riportare la nostra attenzione verso modelli che ci aiutino a interpretarne
le varie fonti e a individuare quali componenti siano associate a un
funzionamento efficiente dei mercati e quali invece sono la conseguenza di
fallimenti del mercato evitabili.
- L'economia capitalista vive in un vuoto istituzionale nel quale i
mercati controllano miracolosamente il comportamento opportunistico.
I liberi mercati non sono mercati senza regole. Istituzioni e regole ben
concepite sono necessarie per il funzionamento corretto dei mercati. Negli
ultimi quindici anni, alle istituzioni è stata data molta attenzione, ma si
concentrava sulla comprensione delle ragioni per cui le nazioni povere sono
povere, non sulla comprensione di quali istituzioni sono necessarie quale
base per il funzionamento dei mercati e per il mantenimento della prosperità
nelle economie avanzate.
- Potevamo essere certi che le grandi aziende con una storia alle
spalle si sarebbero auto-controllate perché avevano sufficiente "capitale
reputazionale".
La convinzione si è rivelata errata per due difficoltà fondamentali: il
controllo deve essere fatto da individui e il controllo basato sulla
reputazione esige che le sanzioni ex post siano credibili. Entrambe le cose
si sono dimostrate false. Gli individui possono non curarsi del capitale
reputazionale dell'azienda e la scarsità di capitale specifico e di know how
significa che le sanzioni necessarie non erano credibili.
IL LATO POSITIVO
Possiamo solo dare la colpa a noi stessi per non aver compreso elementi
importanti dell'economia e per non aver avuto una capacità di previsione
maggiore di quella dei politici. Anzi, possiamo biasimare noi stessi per
essere stati complici dell'atmosfera intellettuale che ha portato al
disastro attuale. Ma la crisi rappresenta anche una opportunità: ha
aumentato la vitalità dell'economia e ha messo a fuoco molte interessanti,
stimolanti ed eccitanti domande. I brillanti giovani economisti non hanno di
che preoccuparsi per trovare nuovi e importanti problemi su cui lavorare nei
prossimi dieci anni.
QUELLO CHE DOVREMMO DIRE AI POLITICI
Le tre idee sbagliate non toccano i principi economici correlati alla
crescita di lungo periodo e all'economia politica. Questi principi hanno
avuto uno scarso ruolo nei recenti dibattiti accademici e sono stati del
tutto ignorati in quelli politici. Come economisti, dovremmo ricordare ai
politici le implicazioni che questi principi hanno nelle scelte attuali.
Il primo punto è che risolvere il problema di breve periodo con politiche
che danneggiano la crescita di lungo periodo è una pessima scelta sotto il
profilo della policy e del benessere. Innovazione e riallocazione sono la
chiave della crescita di lungo periodo, ma gruppi potenzialmente potenti
tendono a resistere a tali cambiamenti. Nei paesi in via di sviluppo, è
facile che popolazioni impoverite, che soffrono shock negativi e crisi
economiche si rivoltino contro il sistema di mercato e sostengano politiche
populiste e anticrescita. Ma sono pericoli presenti anche nelle economie
avanzate, specialmente nel mezzo di una crisi economica come quella attuale.
Piani di aiuto che salvano il settore finanziario o quello dell'auto avranno
ripercussioni sull'innovazione e la riallocazione. Può soffrirne in
particolare la riallocazione, se i piani di aiuto bloccano i fattori in
settori e attività a bassa produttività. I segnali del mercato dicono ad
esempio che lavoro e capitale dovrebbero essere riallocati lontano dalle
"Big Three" di Detroit e i lavoratori altamente qualificati dovrebbero
essere riallocati dall'industria finanziaria verso altri settori più
innovativi. Uno stop alla riallocazione significa anche uno stop
all'innovazione.
REAZIONE DA EVITARE
Queste preoccupazioni non sono una ragione sufficiente per opporsi ai piani
di aiuto, ma sono piuttosto un appello a considerarne le implicazioni per la
crescita di lungo periodo. Un'azione decisa contro la crisi è necessaria,
non solo per attenuare i colpi della recessione, ma anche per evitare una
reazione che potrebbe essere profondamente negativa per la crescita di lungo
periodo. Una lunga e profonda recessione fa nascere il rischio che
consumatori e politici inizino a ritenere i liberi mercati responsabili dei
mali economici di oggi. Se accadesse, potremmo assistere a un allontanamento
dall'economia di mercato. Il pendolo potrebbe oscillare troppo,
oltrepassando i liberi mercati con regole adeguate, verso un forte
coinvolgimento degli Stati nell'economia che potrebbe mettere a rischio le
prospettive di crescita futura dell'economia globale.
Un buon piano di aiuti, pur con tutte le sue imperfezioni, è probabilmente
il modo migliore di combattere questi pericoli. Tuttavia, i dettagli
dovrebbero essere costruiti in modo tale da causare il minor danno possibile
al processo di riallocazione e innovazione. Sacrificare la crescita per il
timore del presente sarebbe un errore altrettanto grave dell'immobilismo:
non si dovrebbe escludere il rischio che possa crollare la fiducia nel
sistema capitalistico.
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